Intervista a Michele Siviero
di Antonella Andriuolo

Una ricerca complessa, minuziosa, un’indagine costante verso il Vero: da dove nasce l’arte di Michele Siviero e da quali elementi trae ispirazione?

Il Vero: la mia ricerca prende origine proprio da questo. Si tratta, infatti, di un’arte di concetto, fortemente imperniata sull’autentica essenza della riflessione, caratteristica del pensiero umano. Attraverso le mie opere, cerco di estrapolarne la stessa matrice per rendere tangibile e concreto ciò che appartiene, più specificamente, al non manifesto. Traggo dunque ispirazione dalla forma più pura dell’idea e dalle importanti esperienze che, a partire dalla metà del Novecento, hanno innovato profondamente questo settore e che artisti come Fontana hanno voluto esprimere: la volontà di andare oltre la bidimensionalità per instaurare, gradualmente, un rapporto che superi la realtà fisica.

Parallelamente alla volontà compositiva, un altro elemento fondamentale nelle sue opere risulta essere la scelta dei materiali: cosa può dirci a riguardo?

Coerenti con la contemporaneità: credo infatti che l’uso delle pelli e delle leghe enfatizzi fortemente questo aspetto. Ciò mi consente di rappresentare un’arte autentica, sincera, figlia del mio tempo e potenziata, in questo caso, anche tramite l’utilizzo ponderato delle componenti materiche.

Se dovesse definire il suo iter artistico e creativo, quali fasi evidenzierebbe, quali sono quindi i passaggi chiave del suo percorso?

In realtà si tratta di un iter abbastanza complesso poiché, in principio, ho iniziato con la figurazione, grazie alla quale ho avuto modo di apprendere le varie tecniche accademiche: dalla costruzione del disegno, alla colorazione stessa. Successivamente, è nata l’istanza di indagare su ciò che si cela oltre la dimensione della superficie. Da lì, poi, l’approdo ad un’arte che si svincoli da tutto quello che era il retaggio del dadaismo e dalle correnti precedenti, è stato immediato.


Un percorso che, nonostante una linea guida principale, non manca mai di significative evoluzioni…

Infatti. Il mio percorso sta già avendo un’evoluzione: attualmente sto interessandomi alla creazione di materiali innovativi che, non presenti in commercio, mi permettano esecuzioni su superfici differenti. Per quanto riguarda le prossime esposizioni, invece, ho in programma una mostra a giugno ed una collettiva a Lignano Sabbiadoro.

In questo contesto così ampio come si colloca, allora, il corpus relativo agli affioramenti?

Gli affioramenti sono oramai diventati la peculiarità di tutto il mio lavoro. Attraverso l’affioramento mi esprimo al meglio, ricercando visioni lontane ed individuando le fasi di un’arte polimorfica. L’apparenza è per me un limite, un ostacolo che, una volta varcato, segna l’accesso ad una vasta panoplia di sensazioni sconosciute. Ma bisogna essere coraggiosi per valicare il confine.

L’interpretazione, da parte di chi guarda, resta sempre un fattore soggettivo. Nell’intento dell’artista, invece, qual è il messaggio che vuole trasmettere?

Il mio messaggio è un invito da decifrare, una sfumatura da cogliere; pertanto il lettore deve essere attivo in questo, ergendosi ad interprete del gesto creativo. Il mio lavoro, se vogliamo, segue parzialmente il processo induttivo applicato dalle discipline scientifiche: indagare attraverso la mutazione delle cellule, facendo però memoria di tutte le esperienze pregresse. Lo scopo? Il disvelamento. Sempre.

Allargando il raggio d’azione, qual è secondo lei il ruolo dell’’Arte oggi: vi è ancora spazio per educare al gusto del bello?

Lo scopo dell’Arte è, a mio giudizio, sempre quello di produrre bellezza. Il fare arte oggi, anche se in un mondo così tecnologico, è importante quanto lo era in passato. Produrre arte è un atto di creazione e quindi, da parte dell’artista, è fondamentale l’osservazione di ciò che egli vive; Arte e Vita possono incontrarsi quali cardini complementari della medesima azione. Proprio in questo senso, dunque, il concetto dell’affioramento si mostra particolarmente duttile in quanto può essere esteso ad una sfera molto più ampia, pertinente al vivere quotidiano: l’affiorare di idee, di pensieri che giornalmente si animano nella nostra esistenza e che rimangono, laddove l’ingegno non riesce a catturarli, impressi su tela.

Antonella Andriuolo

Michele Siviero
“Modulazioni tridimensionali”

di Dino Del Vecchio

Sospesa tra biologia e scienza il lavoro di Michele Siviero, che rivela l’attitudine a smarcarsi dall’idea metafisica, vuole officiare la congiunzione con la linea operativa che fu della “Costruttività”, elaborando un suo ritmato geometrismo frattale, nel senso d’inversione di un linguaggio (atipico) che si certifica analitico e concettuale.
Lyotard affermava che l’opera d’arte, correlata di sapere scientista, non può che generarsi nel futuro. Di fronte a ciò l’artista costruisce e decostruisce un cronospazio e una cartografia del futuro, che va intesa in forma irreale e da cui emerge l’urgenza di cogliere, dalla e nella materia, i contenuti visibili e invisibili di un lavorio intellettuale.
Condotto all’evidenza e recisamente intagliato ad incavo, il singolo elemento, condotto in rilievo su una centina aggettante, di fronte a ipotesi interpretative spesso, l’ordine razionalista e scientista incontra deviazioni incontrollate ed insieme concepiscono l’ambigua tangente simulazionista. La proposizione linguistica, dislocata sui diversi punti della superficie, insiste esclusivamente sul valore oggettivo della razionalità e della tecnica; implica la presenza delle ragioni soggettive, tra sollecitazioni esterne ed interne. L’intera complessità delle forze in campo, ad esclusivo favore della “costruzione”, si attestano nel territorio in cui la dicotomia concentrazione/disseminazione definisce il confine estetico da quello analitico. Nei termini di una simile contrapposizione, le declinazioni formali segnano uno spostamento di campo rispetto alla purezza astratta del significante esperenziale dell’artista che, nella configurazione di un definito pensiero concettuale, fa i conti con la manualità e le materie.
Si può pensare che tale lavoro assume un significato nuovo nel dibattito odierno giacche l’opera, dedotta da una idea preesistente rivela al suo interno il suo stesso farsi: mediante l’individuazione delle possibilità dialettiche che presentano (insieme) due fattori complementari sulla superficie, mediante la retroflessione articolata e geometrale, che modula lo spazio per la contaminazione tra le due e le tre dimensioni.
Rendendo più esplicito il lavoro di Siviero in direzione anche sensibilmente diversa e premendo più direttamente sull’osservatore, si configurano emblematici “luoghi” che decodificano l’architettonicità di una Città immaginaria con un richiamo al territorio, inteso come delimitazione di un luogo abitabile ove si accampano, ipotetici rilievi dalla instabilità percettiva. Tuttavia, l’analisi spaziale (occupazione-misurazione) tende a configurarsi in segni minimali, che divergono e convergono per un processo ottico, che fa assumere agli elementi strutturali, organizzati in insiemi, modi espliciti di una più ampia riflessione sulle declinazioni cinetico-visuali.
Se si pensa che l’attuale condizione dell’arte, tutta orientata verso la messa a punto di un sistema informatizzato e perciò più sofisticato, tale nuova concezione accoglie una ricerca che conclude ai rilievi dinamici, visti come prototipi da Siviero, che anche guarda alla rimeditazione della pittura, mediante elementi di energia che aggetta flussi di luminescenza instabile e, in quanto tale, si sottrae ad ogni fremito contemplativo per collocare i suoi interessi verso l’investigazione sulle possibili variazioni della superficie. In tal senso, egli indica una svolta linguistica, che reca radicali innovazioni. Ad ogni tentazione che solleciti profondità spaziali, che in qualche modo richiamano la tradizione moderna, per il tramite di un processo di azzeramento la superficie, viene impiegata come “spazio d’azione” in cui anche il colore, è definizione di un monocromo quindi “ridotto” al grado primario.
Si delinea un’area di ricerca che dà forza alla struttura fisica; allo scopo di porre le basi ad una struttura della visione - virtuale e reale - con l’ausilio di una ricerca, specificatamente dinamica, in cui si configurano i diritti espressivi del soggetto e dell’oggetto.
L’artista, che ama i procedimenti tradizionali della manualità artigianale, costruisce un suo “dizionario” dei materiali (acciaio ,legno, pelle) che presenta sotto il segno dell’astrazione e affida alle superfici in forme che scandiscono e articolano lo spazio del quadro, che presenta parti di microstrutture plastiche-pittoriche. In alcune opere, i dati costitutivi di un universo naturale aprono altri orizzonti operativi, nelle forme di un’arte che ricupera il valore corporeo, che si dilata per l’intero supporto in modi più marcati e suggerisce una corrispondenza con la realtà esterna, pervenendo alla messa in campo dei “vecchi” problemi che furono della rappresentazione, calda o fredda che sia.
La pretesa di trovare una equivalente analogia con la visione naturale delle cose della realtà, disvela la rivisitazione storicistica, che ripropone la citazione; nel riflesso della continuità con l’esperienza artistica degli anni Ottanta. Tali procedimenti portano alla ribalta strumenti linguistici che allora, hanno provocato la rottura con le avanguardie così dette storiche. Michele Siviero esce allo scoperto e dichiara che le sue superfici-supporto, per l’effrazione dovuta al taglio, ridefiniscono in una serie di componenti forme oggettuali che si mostrano come impronta della soggettività, aperta e diversificata di esperienze, incline a conservare memoria sul filo libero delle associazioni dopo i momenti puramente analitici. Il fatidico taglio al centro di esperienze artistiche che si estendono nel secolo scorso, grazie ad un a ricerca (propria) di pervenire ad un processo di ribaltamento del concetto spazialista, Siviero si sofferma sulla reiterazione del sintomatico gesto ed utilizza i suoi più piccoli tagli per comporre superfici aggettanti ricoperte di più colori, puntualizzato un suo originale modo di intervento.
Naturalmente, un differente clima culturale vitalizia un procedimento che sperimenta le due direzioni, con gli strumenti che variano di significato - iconico e aniconico: (Un modello mentale e un interesse verso la progettazione della forma “tecnica”).
L’inevitabile artificio dell’invenzione (il risultato della prima perforazione) trova corrispondenza in una varietà di soluzioni di valore plastico; secondo l’ordine costruttivo che si prefigura per la susseguente manipolazione in un luogo dove tutto può accadere. Sono dunque gli elementi plastici a porsi in sintonia con la pittura; anche se questa, in qualche modo, tende a svincolarsi per dare corpo a tessere di superfici infinite.
Siviero, trae più che qualche assonanza dalla lezione del cosi detto gruppo di Azimut; ad esempio: gli Achromes pieghettati di Manzoni, le Estroflessioni di Castellani e i Buchi che smarginalizzano di Fontana (…) Egli si accosta a queste Correnti solamente perché incrociano una manifesta licenza cromatica, che diviene la pelle della dissezione, coincidente col gesto della ri-marginazione/congiunzione delle parti che innanzi, abbiamo rilevato - strutturali. Ma tali influenze, volute e/o subite dall’artista, sono oggi il risultato di un più lucido calcolato metodo che va anche oltre l’illusionismo del Color Field americano; in sostanza, ogni singolo punto, compone una scala gerarchica di un rapporto calcolato degli elementi che per converso, determinano l’esistenza fisica del rilievo: giocato sul rapporto cromatico semplice e concettuale. La soluzione è così originale al punto di escludere l’afflato storico di quelle tendenze, più dichiaratamente esposte ai giochi della luce. Le azioni di ricerca di Siviero sono al contrario esterne ed interne alla pittura. La peculiarità consiste nel voler conciliare due livelli di astrazione della superficie e di un realismo delle prospicenze ossessive di una ipotetica versione tridimensionale, che hanno (allora) caratterizzato i movimenti optical e cinetici che, ricordiamo, nel più famoso chaped canaves.
Così, l’identità del progetto creativo, che si contrassegna di peculiarità di un teorema mentale e formale, scientista e fantastico del bassorilievo, si propone per una opportuna riflessione, del tutto attuale dei fenomeni della percezione visiva: l’apporto inventivo di un lavoro, dal quale è maturata la soluzione nuova, che si distacca dalle formulazioni visuali del gruppo padovano, della così detta “Arte programmata e cinetica”. Tra il versante tecnologico e il design, il rigurgito artigianale riproposto da Siviero, che vive anch’esso nella provincia di Padova, si denota differente e indebolito di scientificità e procede alla formulazione di un linguaggio… ludico e inaccostabile. Si sostiene di un’aurea del vagheggiamento, che cede il passo ad un geometrale luogo transfinito, ciò, formula l’ipotesi che l’artista predisponi per le sue superfici, un casellario del tutto immaginario che, invece, autocontempla un progetto che si definisce e sintetizza in un lineare disordine per costituirsi in forma d’arte.
Il colore, invece, appare gerarchicamente subordinato al “rivestimento” per la definizione sensibile dell’idea, che si forma a partire dai micro tagli e reinveste l’intrusione di aggetti che a volte fondono nell’unità del colore e, in altre opere, rivestono di un cromatismo proprio adeguandosi ad un impianto duttile e costruttivo nella perentorietà di un gesto che dispiega un segno eterogeneo e multiforme. Allo stesso tempo, la ricchezza delle sue varianti propone una traccia, evocativa di esiti attivi, per un mosaico che non nega il recupero: un impianto progettuale che scandisce, precisata dalla ripetizione e dalla modulazione, variazioni di pittura che in sequenze dilata per generare la superficie.
Un’altra versione fabulatoria, che potremmo convenzionalmente definire “traccia” di paesaggio, evoca il silenzio e il vuoto; nel riquadro in cui l’artista, creando una serie di raccordi, lascia in sospensione - sulla tela - affioramenti remoti: emblemi di un alfabeto pittorico da interpretare e decifrare. Nel sistema i dati di una oggettiva visione, risolvono il rapporto colore-luce-spazio che, per il tramite della soggettività il pittore, con rigore e metodo, costruisce l’ordito delle tessiture pitto-scultoree, con lo spirito del ricercatore che distilla le infinite possibilità delle sue trame; espandono in una griglia geometrica - perimetrale di un quadrato - e condotte sulla nota monocromatica. L’aggregazione di tali affioramenti genera un rapporto di equilibrio e di corrispondenza armonica, nel diretto prolungamento sul piano di intervento, che così appare declinare, in chiave esasperatamente artificiale, un significato eidetico dell’esistenza.
E così l’artista, nel suo fare e dis-fare (costante) di razionalismo-irrazionalismo preannuncia, per il tramite della sua azione di ricerca - costruttiva/decostruttiva - l’attualità di un concetto già esposto da Maurizio Calvesi alla fine degli anni Settanta, che sottolineò la dualità tra scienza e arte aggiunto un correlato ideativo, di realtà e di fantasia. Riappare perciò l’elemento soggettivo, che liberi l’imprevisto manifestarsi dell’oggetto dell’arte - quella di Michele Siviero - autentico inventore.

Dino Del Vecchio

Michele Siviero:
squarciare il Velo

di Antonella Andriuolo

Rosso e nero: Michele Siviero coglie le sfumature dell’anima.
Lo fa con dedizione, come, in letteratura, fece Stendhal nel suo romanzo, per carpire l’imprevedibile essenza delle passioni terrene, per fotografarne la vulnerabile irrequietezza, senza tuttavia arrendersi alla totalizzante intensità dei colori. Alla scelta del rouge e del noir, la cui istintività enfatizza con il mirato uso della similpelle, affianca, infatti, una lettura moderna, sofisticata, scandita dai toni morbidi del blu e dell’argento che coraggiosamente contrappone al rigore razionale della lucida forma geometrica. Una forma, questa, mai statica ma che, inaspettatamente, si mostra pulsante di vita. Dinamismo. L’esistenza esonda dalla tela, la domina, la pervade. È davvero l’artista padrone ultimo del suo manufatto? È davvero l’artefice il massimo conoscitore del suo operato o permane, invece, l’inafferrabile presenza di un quid ameno e sconosciuto? Sottile è il filo che divide creatore e creato, di cristallo il solco che ne traccia le rispettive autonomie. Un filo condannato a spezzarsi, nella realistica eventualità di uno sperato interagire. Punti di contatto. Sono questi gli affioramenti, le camaleontiche composizioni che coniugano il tempo presente a quello passato: in un articolarsi di curve, linee, spirali emergono, come dimenticate costellazioni, immagini plastiche e suggestive di astri abilmente disposti lungo la volta celeste. L’armonia si plasma, come note sinfoniche in uno spartito musicale, nel fascino di strutture damascate, arabeggianti, di cui immediatamente si avverte una primaria impenetrabilità. Ricami labirintici imprigionano il pensiero e ne disegnano i confini: questo l’ostacolo dell’irrefragabile limes, fisico e metafisico, a cui l’uomo tenta ostinato d’opporsi. L’artista accetta la sfida: l’opera di Siviero non vuole suggerire ma dimostrare. Non vuole affascinare ma sedurre. Non vuole essere oggetto meramente contemplativo del sentire estetico ma elevarsi, invece, a suo vivo e principale interlocutore. È un’arte di “affioramento”, capace di essere assorbita solo attraverso un’accurata analisi della superficie, di ciò che essa rivela, di quanto delicatamente nasconde, del puro concetto di veritas che sottende. Ed è proprio dal valore semantico ed etimologico dell’aleteia, in quanto dimensione non-celata, che ha origine lo sforzo intellettuale di Siviero che gradualmente si accosta a quello materico, nella ricerca della perfezione esecutiva attraverso l’equilibrio degli elementi. Affannoso il bisogno di strappare il vero dall’oblio. A tale scopo applica un processo induttivo: nuclei ontologici a sé stanti concorrono insieme alla creazione, alla nascita dell’uno, animati dalla consapevolezza che nella superficie vi è un qualcosa che la eccede ma che può essere intuita solo attraverso essa, secondo la concezione che vede il finito intessuto di infinito. Astrattismo e materia, tangibile ed impalpabile, ecco il paradosso adorniano: l’affioramento, in quanto apparenza, risulta pertanto necessario alla comprensione della profondità e, in qualità di fattore imprescindibile, è destinato a divenire il maggior grado di quest’ultima. Siviero lo sa e si lascia guidare dalla dea dell’arte, ne trae ispirazione, la invoca, facendosi condurre nei non-luoghi che imprime su tela, in un iter di cui egli stesso sembra ignorare la meta finale, teorizzando l’intrinseca incompiutezza dell’opera. Paul Klee diceva di non aver mai finito un quadro, di non essere mai riuscito a portare nessuna opera a termine, narrando l’amara consuetudine di essere strumento e non matrice. Siviero, pur nella naturale irrazionalità che caratterizza il gesto creativo e la meta-operatività umana, tenta di codificare il messaggio superficiale dell’apparire dettato dalla contingenza. Più che di cifra artistica allora, nel corpus dei suoi lavori, si può parlare di una sorta di de-cifrare che fa dell’interpretazione il suo punto di forza e che collima con l’urgente richiesta da parte dell’uomo di volere l’infinito dispiegato ai suoi occhi. Grazie alla traduzione del criptico messaggio racchiude l’universo in una tendenza sintetica e sincretica, inducendolo ad un perpetuo movimento; appare così esplicito l’implicito, chiaro l’oscuro, svelato il segreto. Come in Fontana, l’Arte oltrepassa la linea di demarcazione, rifiutando la convenzione comune, l’etichettatura, le gabbie accademiche ansiose di catalogarla.

Prima fulminei bagliori di luce, poi… buio, poi nuovamente ed eternamente luce. Arriva l’idea, la risposta, la redenzione, l’esito audace che si stava attendendo. E giunge, finalmente, dall’ovattata foschia in cui era sommersa, l’interezza: il Velo è stato squarciato.

Antonella Andriuolo

Pensiero
di Michele Siviero

Ogni forma di principio creativo o ricreativo parte da un’esigenza speculativa del Genere Umano, l’atto intelletuale è per l’uomo l’autentico principio superiore e ordinatore
dell’intera esperienza conoscitiva non solo coessenziale con la natura,
ma soprattutto in rapporto sperimentale con le infinite possibilità intellegibili attraverso le quali la Sintesi del Processo Mnemonico instaura un diretto contatto con frammenti irrazionali
che scandiscono dimensioni nello spazio o nel tempo, nuovi alfabeti,
perpetuando così l’estrema ambizione introspettiva verso un principio infinito
proteso al raggiungimento ideale dell’assoluto.
Tale volontà di conoscenza necessita, nella contemporaneità del XXI secolo
di una sostanziale interattività fra congiunzione temporale e livellamento ideale dell’essenza. 
Da tale proposizione nasce una moltitudine di interpretazioni soggettuali che portano ad uno spostamento atemporale dell’idea di Spazio, creando delle Aggregazioni Strutturali, liberate eccezionalmente nello spazio e nel tempo, le quali affiorano per mezzo di un’assoluta e precisa, se pur imprevista variante, come punto di legame contingente fra intuizione e senzazione.
Io forgio un’arte figlia del nostro tempo, della nostra cultura, in rapporto a tutta la storia, come principio di congiunzione fra Poetica Sentimentale, Concettuale ed Analitica.
Il concetto di ricercare una sintesi assoluta non va intesa come fine, a puro Messaggio Filosofico,
ma piuttosto come mezzo di ricerca che proponga una decisa volontà
a concepire lo stato di conoscenza umana,un limite, non da distruggere, ma da superare.
 

Michele Siviero